Elisa Ruotolo e la vicina lontananza del suo stile


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"Scrivere qualcosa che sia migliore di quel che si è."
Elisa Ruotolo, 11 settembre 2014, Roma.

Questa sarà la citazione di Elisa Ruotolo che mi porterò dentro dopo averla incontrata giovedì 11 settembre alla Libreria Pallotta a Roma. L'incontro era uno di quelli organizzati nell'ambito dell'iniziativa "Libri a mollo" a Ponte Milvio e lei era l'autrice che con tanta convinzione avevo proposto a giugno al gruppo che segue @TwoReaders.
Avevo subito contattato Elisa grazie all'intercessione di Nottetempo, il suo editore, e lei è stata felice della scelta di leggere "Ovunque proteggici" e di condividerlo tra lettori appassionati, ha inoltre accettato di rispondere a qualche domanda al termine della lettura. Il contatto con Elisa è stato possibile per la sua grande gentilezza, le ho chiesto in punta dei piedi di poterle rivolgere alcune questioni e lei ha davvero accolto i pensieri del gruppo e lo scambio di email che ha portato alla piccola intervista di seguito. All'incontro a Ponte Milvio sono emersi molti dei pensieri che avevamo condiviso per email, ma lei era lì e sentire raccontare "Ovunque proteggici" dalla vera voce del libro è stato molto emozionante. La scrittura di Elisa è stata accostata a quella di Elsa Morante in "Menzogna e sortilegio", lo aveva notato in corso di lettura Letizia, che insieme a me gestisce e organizza @TwoReaders,ed è emerso anche all'incontro di giovedì e lei ha spiegato che la Morante è un suo riferimento e addirittura che stava leggendo proprio quel libro mentre scriveva il suo. Già solo questo testimonia la forte capacità di comunicare di Elisa che seppure con uno stile assoluto e passato vissuto come veicolo per allontanarsi da sè durante la stesura, si è avvicinata così tanto da far percepire l'intimità delle sue letture.

La prima cosa che mi è venuta in mente leggendo il tuo libro è stata la coerenza sistematica, come sei riuscita a costruire un mondo così articolato?
Credo che la coerenza sia frutto di una attenta riflessione. Prima di cominciare una storia medito sempre a lungo e rimando continuamente la stesura finché non sono certa d’aver trovato il tono, o se vogliamo la voce giusta. Sono le uniche cose che cerco e forse le uniche che io riesca a trovare. La trama no, quella continua a sfuggirmi ogni volta che scrivo. Lavoro come diceva Čechov “senza trama e senza finale”; non so mai dove andrò a finire e sono completamente nel sortilegio del racconto, in balia dei personaggi e di un possibile fallimento. 
E’ una modalità non solo insolita, che mi porta ad essere spettatore della mia creatura, ma anche rischiosa e difficile. Tuttavia la semplicità – nei libri, nello scrivere – mi è sempre parsa una condizione innaturale, dato che neanche la vita lo è. 

“Ovunque, proteggici” è la storia di una famiglia, la storia di come e perché Lorenzo ha un segreto, sei partita da lui nel creare i personaggi?
Sì, all’inizio avevo solo Lorenzo e l’idea di un ragazzino che coltiva il sogno dell’orfanezza a partire dal padre, Nicola Girosa (un rude artista di strada che sembra trasmettergli  solo vergogna ed eccesso). Le radici familiari, i destini degli avi raccontati nel lungo flash-back della prima parte sono nati in seguito, forse dal bisogno di dare un passato all’ultimo Girosa e una motivazione alla crudeltà di Nicola. Lorenzo è la foce verso cui confluiscono le acque della vicenda, un uomo piegato dal peso delle sue menzogne e da un segreto che lo costringe a riportare in vita il passato che – proprio per ché è stato – rappresenta la sua unica verità e il più vivo tormento.

La dimensione del segreto irrompe subito nel libro e pian piano lo pervade, tutti hanno qualcosa da nascondere, credi sia un aspetto ancestrale delle famiglie?
Non è possibile generalizzare: ogni famiglia è un microcosmo ordinato secondo le proprie regole (talvolta – perché no? – con dei segreti da custodire). E’ chiaro tuttavia che ogni storia cercherà di portare in luce un mistero, una colpa. Qualcosa che istighi alla segretezza.

I Girosa hanno grandi capacità e grandi lacune, forse soprattutto affettive, è corretto osservare che sembrano un nucleo che rispecchia un’umanità?
Credo di sì, sono individui che - per sbagliati o celesti che siano – hanno in sé il nocciolo duro dell’umano, le sue contraddizioni e le sue virtù, le sue potenzialità e le sue mancanze. Ma è un esito non premeditato.

Una lettrice del gruppo, Paola, ha notato che molti personaggi sono colpiti da menomazioni fisiche, si nasconde un significato dietro queste condizioni?
E’ vero, Paola ha ragione: c’è la gamba lenta di Mariano e l’occhio pigro di Ester, e poi ci sono le mancanze meno fisiche che riguardano Tommaso e Prosperella. Credo di aver voluto suggerire quanto poco peso possano avere le condizioni di cui parlo. In fondo Mariano sarà sempre un passo avanti rispetto agli altri; Ester guarirà da questa mancanza “prendendo a scherzo il dolore”; Tommaso farà più strada di altri che scommettevano sulla sua presunta debolezza di mente; e Prosperella sarà latrice di un’umanità calda e indimenticabile. Probabilmente c’era in me la volontà di non darla vinta al peggio, di trasformare in forza le debolezze presunte.

Nel raccontare questa storia ti sei affezionata in modo particolare ad alcuni dei tuoi personaggi?
Accade sempre, ma con i personaggi di Ovunque è avvenuto anche qualcosa di insolito: ognuno ha richiesto il suo spazio di volta in volta. Per cui nonostante Lorenzo e Nicola mi abbiano ghermito più degli altri (perché è stato complicato seguirli, capire cosa volessero dirmi), figure umane come Rachele, Mariano, Giovanni o Rosaria – nel momento in cui ricevevo la loro storia – mi hanno accorato e sconvolto. Più di tutti Rachele (quando ho conosciuto la sua infanzia mancata e il suo destino di sposa), e Rosaria, personaggio in divenire, dai nomi e dai destini molteplici eppure mai intaccata nella sua purezza.    

In libri molto intensi come il tuo spesso i personaggi per un po’ rimangono presenti nel tuo quotidiano del lettore anche dopo aver concluso il libro, succede anche all’autore?
Sì, succede e io ho faticato molto ad abituarmi a vivere senza i Girosa: a svegliarmi e non avere più ragione d’entrare nella loro Villa senza misura. Sono venuta via da quel mondo più o meno un anno fa  e ogni giorno mi capita di pensare che quel piccolo universo “esatto e mentito”, come direbbe Manganelli, abbia lo stesso peso e produca le medesime nostalgie dei luoghi reali. Gli spazi e i tempi letterari producono nostalgie incolmabili e allo stesso tempo difficili da raccontare. Probabilmente io stessa negherei se non ci fosse lo schermo della distanza tra me e chi leggerà. Mi sembra sempre che questa faccenda dello scrivere sia incomunicabile: che si rischi troppo nel dire sinceramente quanto possa arricchirci e dilaniarci.

Il tuo stile ha un sapore antico, nella costruzione e nei modi di dire sembri attingere a un mondo scomparso, sembri parlare una lingua che fu, come nasce il tuo linguaggio letterario?
Nasce dal bisogno di accudire il linguaggio, corteggiare ogni singola parola e il giro della frase – che poi credo sia l’unica forma di moralità che la letteratura possa concedersi : l’unico rimedio alla sua dichiarata inutilità. Penso sempre che se la scrittura è la mia religione, io – in quanto suo sacerdote – ho bisogno di una ritualità da seguire e da eseguire. La parola è il mio rito.

La tua professione, sei un’insegnante, ha influenzato l’uso particolare e accurato della lingua, magari proponendoti dei modelli?
I padri sono sempre, e per fortuna, tanti. Talvolta mi accorgo di citare anche autori letteralmente contrapponibili, ma credo sia anche naturale: da ognuno ho saccheggiato qualcosa in termini di lingua, di costruzione delle storie, di senso dell’attesa, di visione del mondo. Direi di amare Gabriel G.Marquez, J. Maxwell Coetzee, José Saramago, Alice Munro, Gesualdo Bufalino, Michele Mari, Giorgio Manganelli, Apuleio, Fëdor Dostoevskij, Elsa Morante, Giacomo Leopardi…e molti altri sicuramente li dimentico, ma è giusto anche così. Perché la letteratura dev’essere imprendibile, poco gestibile, scomoda; assieme sacra e nel contempo femmina di strada, roba da celebrare e dimenticare. A voi la scelta di leggere o meno questo rigo in forma di chiasmo. 

La riflessione che faccio dopo la lettura di “Ovunque proteggici” mi porta a una domanda, le famiglie, molte se non tutte, sono ricche di non detti, ma i segreti vanno tutti svelati?
Nell’economia del romanzo direi di sì, poiché dal momento in cui comincia lo svelamento, inizia anche il perdono. Ma chi scrive ha sempre un’idea distorta di verità, menzogna, segreti, svelamenti e bisogna pure ammettere che vita e letteratura lavorano utilizzando materiali diversi: che ciò che accade nella vita vera e spesso appare intollerabile, diventa abitabile e accettabile in letteratura. Purtroppo, come vedi, ho solo domande e poche risposte da dare.


Grazie ancora.

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